Questa destra «romana» deve andare a casa

Ecco chi ha polverizzato il consenso dell’ex Pdl a Roma E tra ex governatori e ministri piangono anche i leghisti

ROMA – Gli ultimi della classe. Difficile trovare una definizione diversa per il ceto politico del centrodestra romano. Quel blocco che una volta costituiva il Pdl e oggi è disperso in almeno tre o quattro rivoli accomunati da un’unica, tragica scelta: quella di sfidare Giorgia Meloni per impedirle di arrivare al ballottaggio e regalare, di fatto, un’àncora di salvezza a un Partito Democratico mai così malridotto.

E poco importa che la scelta sia ascrivibile a Silvio Berlusconi. Talvolta, chi fa politica e dovrebbe avere il polso dell’opinione pubblica, ha il dovere di ribellarsi e riportare anche il leader alla ragione.

Invece, per sentire qualcuno sostenere che la decisione di puntare su Alfio Marchini (e Guido Bertolaso prima) era da folli, è stato necessario volgere le orecchie al Nord: i vari Giovanni Toti, Laura Ravetto e Daniela Santanché hanno avuto il coraggio di ribellarsi al diktat del Cav.

Non hanno evitato lo sfracello, ma almeno oggi possono recitare la litania dell’«io l’avevo detto». Gli ultimi della classe, si diceva. Perché, a ben guardare, il dato nazionale di Forza Italia non è da buttare: il partito di Berlusconi, calcolando solo i capoluoghi di provincia alle urne, si conferma prima forza del centrodestra con oltre 250mila voti.

A preoccuparsi, semmai, dovrebbe essere la Lega di Matteo Salvini, che ha fallito l’ennesimo tentativo di sbarcare al Sud e, in termini di voti assoluti si ferma a 170mila ed è stata superata anche da Fratelli d’Italia. E invece, se oggi si parla quasi esclusivamente del tracollo azzurro, la colpa è tutta del partito romano.

Capace di dissipare in tre anni due terzi del proprio consenso. Ed è fuorviante sostenere che «a Roma la destra è sempre stata più forte dell’area moderata». Fratelli d’Italia c’era già nel 2013, ma pesava appena per il 6%.

Un po’ di nude cifre.

Il Pdl crolla da circa 200mila voti ai 65mila che oggi costituiscono la somma delle preferenze di Forza Italia e Roma Popolare.

Da sette consiglieri in Campidoglio a uno solo.

Ma più che le sigle pesano i nomi.

Una pletora di ex governatori (Polverini e Storace), ex sindaci (Alemanno), leader discussi (Fini), ministri (Lorenzin), europarlamentari (Tajani e Mussolini) o capibastone (Bordoni, Giro, Fazzone, Aurigemma e tanti altri) oggi ha visto il proprio consenso sul territorio polverizzarsi. C’è chi lo ha fatto per paura di cedere le proprie clientele alla nuova generazione della destra romana – guidata da Giorgia Meloni e Fabio Rampelli – e anche per l’incapacità di indicare una direzione all’elettorato dopo il tramonto di Berlusconi.

E c’è chi, invece, lo ha fatto per l’esatto opposto: per l’incapacità di accettare l’affermazione di una nuova leadership, poco disposta a distribuire prebende e poltrone a chi ne ha avute già tante. Si tratta di tutto l’universo degli ex An, diviso tra chi oggi brinda per aver impedito alla leader di Fratelli d’Italia di arrivare al ballottaggio e i pochissimi – Storace in testa – che provano a fare un po’ di autocritica. È questo il centrodestra dal quale Roma non può ripartire.

Con l’aggiunta dei leghisti calati dal Nord per provare a sedurre la Capitale. Se Noi con Salvini si è arrampicata fino a un insoddisfacente 2,7%, lo deve soprattutto ai suoi interpreti romani. I «lumbard» spediti a Roma dall’«altro Matteo» hanno fatto davvero poco per sedurre l’elettorato. Il radicamento non è qualcosa che si possa improvvisare o appaltare da lontano.

 

 

Carlantonio Solimene per “Il Tempo”