Tarquinia – Interrogatori in carcere per i titolari della Costa Metal

Le mogli di Antonio ed Emanuele Costa saranno interrogate all’inizio della prossima settimana. Francesca Maruccio: “Valuteremo oggi se rispondere o meno alle domande del magistrato”

TARQUINIA – I titolari della Costa Metal, padre e figlio, Antonio ed Emanuele Pietro Costa saranno ascoltati questa mattina durante l’interrogatorio di garanzia che si svolgerà presso il carcere Aurelia di Civitavecchia.

Molto probabilmente si avvarranno della facoltà di non rispondere o almeno così ci ha fatto intuire uno dei suoi legali, Francesca Maruccio.

“E’ la prima volta – ci dice la legale – che vediamo mettere sui giornali una notizia di reato così dettagliata nei particolari. Forse si sono dimenticati di scrivere una sentenza che sembra già emessa”.

La professionista civitavecchiese è sembrata piuttosto seccata per come la notizia sia stata divulgata alla stampa con un corposo e dettagliato comunicato stampa.

Non si è voluta sbilanciare sulla strategia difensiva ma le carte da leggere sono tantissime ed è evidente che rispondere al magistrato, in questo momento, potrebbe solo che aggravare la posizione dei due.

Per quanto riguarda Paola Piselli e Talita Volpini, ristrette ai domiciliari, gli interrogatori di garanzia si svolgeranno, con tutta probabilità, nella giornata di mercoledì.

Per le fiamme gialle, “i lavoratori ogni due, tre anni venivano licenziati da un’azienda e assunti da un’altra, sempre riconducibile e gestita dagli arrestati”. Qui, secondo l’accusa, sarebbe la truffa all’Inps.

Cinque le aziende coinvolte. Quattro gli arrestati, tutti tarquiniesi: due uomini, Antonino ed Emanuele Pietro Costa finiti in carcere, e due donne, Paola Piselli e Talita Volpini ai domiciliari. Secondo i finanzieri, avrebbero “beneficiato illegalmente delle agevolazioni contributive previste per le nuove assunzioni e per la trasformazione dei contratti di lavoro”. Inoltre, passando gli operai da un’impresa all’altra, li avrebbero anche “privati del trattamento di fine lavoro. Minacciandoli di non essere più assunti – spiegano le fiamme gialle -, li costringevano a firmare liberatore in cui attestavano di aver ricevuto quanto gli spettava e di non avere null’altro da pretendere”.